Il talento non sempre è la vocazione

“C’è poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore. Anche perché non sono ancora riuscito a capire bene, malgrado i miei cinquantotto anni, cosa esattamente sia la virtù e cosa esattamente sia l’errore, perché basta spostarci di latitudine e vediamo come i valori diventano disvalori e viceversa” (Fabrizio de Andrè)

Nel Mito di Er, contenuto nella Repubblica di Platone è scritto

“Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine, un disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un Daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di essere venuti vuoti”.

Poi ancora Platone

“Non ha padroni la virtù; quanto più ciascuno di voi l’onora tanto più ne avrà; quanto meno l’onora, tanto meno ne avrà. Il dio non ne ha colpa”.

Questa fu una colossale reinvenzione del mito classico operata da Platone, che toglieva la sorte degli umani dalle mani del caso o degli dei, dove era sempre stata, e la metteva in quelle di ciascuno di noi.

Negli anni Novanta lo psicologo americano James Hillman ha recuperato questa antica idea platonica (e prima ancora orfico-pitagorica), e ha sviluppato la cosiddetta teoria della ghianda, secondo la quale siamo tutti venuti al mondo con un’immagine scelta prima di nascere, che ci definisce:

“ognuno di noi percepisce che la propria vita – scrive Hillman nel suo libro più noto, Il Codice dell’Anima – contiene molte più cose di quante le mille teorie fin qui formulate riusciranno mai a definire. Chi non ha mai avuto, almeno una volta nella vita, una sorta di illuminazione che ci ha condotto dove siamo? Questo qualcosa ci ha colpiti come un fulmine. Dopo la ‘fulminazione’ avevamo chiaro in mente ciò che dovevamo fare e lo abbiamo fatto. Improvvisamente abbiamo avuto una maggiore coscienza di noi”.

Diventare “la migliore versione di se stessi” arriva oltre, mettendo in luce un punto fondamentale: che la scintilla non è lo scopo.

Che il Talento non è la Vocazione.

Che quello che sai fare bene – suonare il piano, fare i calcoli, giocare a calcio – non è necessariamente quello che ti farà stare bene. Che siamo sulla Terra con un motivo, e non per un motivo. E non c’è nessuna missione preassegnata che bisogna disperatamente trovare e a cui poi bisogna assolvere.

C’è sì una scintilla per tutti, ma il senso della vita è altrove.

“Quando la gioia diventa ossessione, avviene il distacco dalla vita”. Lo stato di flow, di flusso, è l’espressione massima del talento, rara e meravigliosa, ma va usata con consapevolezza: quando il talento si fa troppo ingombrante (perché troppo presente o troppo assente) finisce con l’oscurare il senso dell’esistenza, che è invece paradossale, sterminato, incoglibile se non per approssimazioni. L’invito dunque resta quello di non fossilizzarsi nella ricerca di un senso donato da un talento, perché questo approccio si rivela alla lunga sterile, oltre che troppo semplicistico. Vivere per conoscere la vita, piuttosto.

“La vita come mezzo della conoscenza – con questo principio nel cuore si può non soltanto valorosamente, ma perfino gioiosamente vivere e gioiosamente ridere”, come scrisse Nietzsche ne La Gaia Scienza.