“Dobbiamo vigilare:siamo sempre più divorati da ritmi disumani,da necessità prefabbricate,incapaci di essere soggetti della propria storia” (E.Bianchi)
Per comprendere la contemporaneità e i disturbi-figli del nostro tempo-il concetto di sorveglianza credo sia ormai imprescindibile.
La sorveglianza è infatti passata da essere una pratica relativamente marginale (controlli in aeroporti o di agenzie di sicurezza nazionali) a divenire elemento centrale nella vita della maggioranza grazie alla presenza capillare di smartphone, “internet delle cose” e sistemi di sorveglianza sempre più avanzati.
Osservare ed essere osservat* è diventato uno stile di vita, che se fino a pochi anni fa pre-pandemia poteva sembrare pervasivo, oggi assume i contorni di una sconcertante normalità, da legittimare persino il concetto di “autosorveglianza”: ciò, se ci riflettiamo, sta portando un impatto significativo sulla percezione del se’ individuale, che sente l’esigenza atrofizzata di migliorarsi costantemente tenendo sotto controllo i parametri quantitativi dati dalle tecnologie (quanti passi riesco a fare, quante ore di sonno, quante ore di fila riesco a lavorare ecc.) sottomess*alla dimensione della performance costante.
Volenti o nolenti ci troviamo impegnat* in relazioni di potere o micro-potere, di controllori e controllat*, dove la sorveglianza gioca un ruolo fondamentale: il capo che controlla se l’utente ha condiviso i post promozionali dell’azienda, il ragazzo geloso che scruta i like messi dal proprio o dalla propria partner, il potere strumentalizzante dei social per profilare gli utenti, vendere i loro dati per influenzarne il comportamento ecc.; un potere che non solo subiamo ma che esercitiamo,spesso senza la minima consapevolezza.
Tornare indietro sarebbe impossibile, ma uno spunto importante ce lo fornisce D.Lyon nel libro “La cultura della sorveglianza”: proporre cioè una sorveglianza non tanto “di”, ma una sorveglianza “per”, con lo sguardo positivo che gli immaginari di sorveglianza siano permeati da un’etica della cura collegata alla prosperità umana.
Per favorire una “giustizia dei dati” e una cittadinanza digitale più consapevole.
Il primo passo, come sempre, resta cominciare a farci caso.
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