Chandra Candiani nella sua ultima opera “Questo immenso non sapere” scrive: “In ognuno di noi c’è un cane spaventato dalla discontinuità dell’esperienza. Una buona pratica, preliminare a tutte le altre, è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo e vede ora. La pratica della meraviglia è una pratica che cura anche il cuore più ferito della terra. Si può andare a trovare un piccolissimo pezzo di prato, un pizzico di prato c’è sempre, anche in città. E guardare. A lungo. Si apre un universo minimo. Infinite vicende, mutamenti, arrivi, partenze, forme sempre più piccole man mano che lo sguardo si limita a vedere. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura“.
Così mi piace pensare di una certa psicoterapia, che, non è altro che un’assistenza alla pratica antica filosofica della cura di sé. È possibile allenare “occhi da principiante” nella stessa misura in cui siamo disposti a terminare le nostre affermazioni sul mondo ,le persone e le cose “risapute” con un punto interrogativo. Le domande come ponti e le parole come finestre.
Oggi più che mai questa attitudine ritorna come una necessità sociale e culturale. Perché se l’esperienza e la narrazione personale rischia di essere davvero frammentaria e discontinua, uno sguardo posato ed esercitato al terrore quanto alla meraviglia -che scruta e si lascia scrutare- è davvero ,forse, l’unico detergente possibile al bisogno di senso e di “legatura” del proprio “fattore narrante”.
Poiché ognuno ha il suo. Un modo proprio ed originale per stare dentro e appena sopra la superficie delle cose. Un modo, oltre che un motivo, vivo e vero, per imparare a reincatare il mondo.
Come dentro così in fuori.